In Turchia è stato indetto il referendum per votare gli emendamenti costituzionali che sono già stati approvati dal parlamento a seguito di dibattiti politici oculatamente celati all’attenzione pubblica, con l’imposizione dello scrutinio aperto in parlamento, e la violenta rissa del 12 gennaio in aula.
Tali modifiche comportano l’istituzione di un vero e proprio regime dispotico.
Si vuole resuscitare la tirannia calpestata dalle rivoluzioni popolari, del popolo che lavora e vive in Turchia, provenendo da tutte le nazioni e da tutti gli angoli del paese.
L’èra dispotica di Abdul Hamid II ha rappresentato gli interessi del padrone di casa intento a sfruttare i contadini ottomani, degli agha (gli ufficiali civili e militari), degli usurai, del feudalesimo finanziario che saccegghiava il prodotto del contadino, e della casta burocratica privilegiata dalla corte.
Il dispotismo d’oggi si instaura in nome degli interessi delle potenze imperialistiche, degli azionisti di mercato, dell’immenso capitale monopolistico locale e delle banche, gli usurai contemporanei.
La classe operaia in Turchia ha nel Partito Rivoluzionario dei Lavoratori (DIP) un punto di riferimento inespugnabile nella lotta di classe contro il consolidamento di un regime dispotico che si vuole richiamare in vita, a vantaggio esclusivo delle borghesie capitalistiche.
La rivoluzione della Libertà (meglio conosciuta come la “Rivoluzione dei giovani turchi”), che ha sconfitto questo dispotismo nel 1908, non si è limitata ad abbattere Enver Pascià, che più tardi divenne pro-tedesco proprio come Abdul Hamid: l’intera classe operaia (portuali, falegnami, ferrovieri, vetrai, telegrafisti, tramvieri, facchini, vigili del fuoco e infinite altre categorie di lavoratori che hanno avuto allora il battesimo del fuoco sulla scena politica turca) che ha partecipato a questa rivolta, ha spianato la strada per le future pagine di lotta di classe in Turchia.
La rivoluzione ha reso possibile tutto ciò che fu in futuro, soltanto annientando la tirannia.
Se la nostra classe, dalla dimostrazione di Saraçhane del 1961 allo sciopero Kavel del ’63, dai 15/16 giorni di giugno del ’70 con gli attacchi contro il MESS (la confederazione dei padroni dell’industria metalmeccanica) sino alla fine del 1980, dalle azioni della primavera ’89 alle gigantesche miniere dello Zonguldak (in provincia di Ankara) alle manifestazioni Kizilay dei dipendenti pubblici del 17/18 giugno ’95 e alla “comune di Sakarya” dei lavoratori della Tekel del 2009-10, ha potuto attraversare queste colossali e innumerevoli lotte fino ad oggi, e molte vincerle, tutto comincia da quella vittoria. È tutto grazie alla distruzione di quel regime dispotico che oggi si intende riesumare.
La classe operaia ha partecipato alla lotta di liberazione nazionale, ha portato la repubblica sulla propria schiena, ha resistito contro i colpi di Stato, impassibile contro i governi collaborazionisti e i loro soci, contro l’imperialismo; e tutti i diritti e le libertà di cui si dispone oggi, sono stati conquistati grazie alla spinta rivoluzionaria dei lavoratori e alle loro strenue battaglie.
Adesso tutti questi diritti e queste libertà sono gravemente minacciate.
L’intera nazione si trova sull’orlo di un collasso fratricida a causa di contese tutte interne a un capitalismo sempre più avido di sangue, incrudelito dal giogo dell’imperialismo.
S’impone ancora una volta alla classe operaia della Turchia il compito di cambiare il destino del Paese, sostituendo il fratricidio tra i poveri con la lotta di classe contro la borghesia, l’imperialismo e il fascismo.
La nostra classe, che pure era un’esigua minoranza quando un secolo addietro seppe sconfiggere il dispotismo di Abdul Hamid II, oggi è un leviatano gigante, con milioni e milioni di compagni tra i propri ranghi.
Ha tutta la forza, ormai, e la memoria, e l’esperienza necessaria per compiere trionfalmente questa missione.
Il Partito Rivoluzionario dei Lavoratori non fa il suo appello a chi ha votato questo o quel partito, chi sposa un certo stile di vita, o ha una certa identità invece che un’altra.
Il nostro appello è rivolto alla classe operaia, a chi lavora duramente in ogni angolo della nazione, e a chi costituisce la stragrande maggioranza della società turca.
Le donne, che sono la parte più impavida e determinata del popolo; i giovani; tutti coloro i quali portano sulla propria spina dorsale il peso del paese e degli sfruttatori sanguisughe che ne fanno razzia; gli operai che lavorano nelle fabbriche o nei campi, che perdono quotidianamente la vita sul lavoro in crimini contro l’umanità che chiamano “incidenti”; chi lavora nelle miniere, nei cantieri navali, chi lavora in casa e chi muore combattendo in prima linea. Per tutti quelli che meritano di vivere dignitosamente, assai più di chi vive di lussi depredando i frutti del lavoro altrui.
Noi non ci scagliamo solo contro questo o l’altro partito borghese.
Per il nostro avvenire, non fidiamo sulle “contraddizioni interne” tra gli interessi di comuni nemici del popolo.
Rivolgiamo il nostro appello unicamente alla classe operaia perché opponga il suo “No” al regime dispotico che la borghesia mira a reinstaurare, consolidando massicciamente il proprio dominio di classe.
L’appello del Partito Rivoluzionario dei Lavoratori è per dire No al referendum presidenziale.
E non è una chiamata che si limita al giorno del referendum (il fascismo è già a metà della sua opera: le condizioni di accesso alle urne non sono né uguali né libere, lo “Stato di emergenza”, inizialmente proclamato con tutt’altre ragioni, attenta al cuore dei diritti sociali e civili del Paese; si nega la libertà di espressione, si imbavaglia la stampa, la magistratura è ostaggio della politica e gli scioperi sono proscritti).
Se non fosse per questa repressione, gli strati popolari accorrerebbero in massa a dare il proprio No al neoregime. E i suoi sostenitori perderebbero contro una maggioranza schiacciante. E chi è al potere, lo sa anche troppo bene.
Ecco perché hanno rifiutato di trasmettere le udienze in parlamento pubblicamente, e perché hanno nascosto le disposizioni dei nuovi emendamenti.
E perché è stato introdotto il “voto aperto” anche quando la Costituzione impone il voto segreto. E perché, chi avrebbe votato contrario, è stato dipinto come un implicito sottoscrittore del golpismo o del terrorismo.
Questa è la vera ragione che sta dietro il sequestro dei volantini, l’intimidazione di chiunque propagandi per il “no” da parte di aspiranti capi-mafia prezzolati dal potere, e gli attacchi armati contro i dissidenti di Erdogan.
Ma ogni sforzo è vano.
Non importa a quale partito si siano affidati prima, i lavoratori di questo Paese sapranno rispondere a coloro i quali hanno detto, disprezzandoli, che “gli ultimi saranno i primi, e sarà infatti la fine del mondo!” e che hanno preso a calci i fratelli dei 301 minatori assassinati sul lavoro nei pozzi minerari di Soma.
Ma bisogna che chi sa che perdere la libertà e l’uguaglianza non potrà essere la condizione per riconquistare uguaglianza e libertà, dica di no anche a tutti i tipi di repressione in corso, prima del voto.
I lavoratori non si affideranno al gatto per la sicurezza del passero.
La lotta per la libertà delle lavoratrici e dei lavoratori della Turchia è cominciata sulla scia della battaglia referendaria, continuerà nelle urne e si estenderà al di là del voto.
La lotta di oggi è nelle urne, domani continuerà nelle fabbriche, nelle miniere, nei cantieri, nei campi, nelle scuole.
La classe operaia non si chinerà di fronte al dispotismo.
Un forte No saprebbe irrobustire la nostra lotta di classe contro le borghesie e l’imperialismo, ed aprire la via per recuperare il diritto di sciopero, che è stato bandito per anni, e scaraventare quell’abominio chiamato “subappalto” una volta per tutte nella pattumiere della Storia, così da non correre alcun rischio di disoccupazione in questa incalzante crisi economica, e così da garantire la sicurezza sul lavoro degli operai e degli impiegati pubblici, e assicurargli una vita decente in luogo di salari da fame.
Un forte No potrebbe salvare la nazione dal collasso fratricida e rilanciare la nostra marcia verso la vera uguaglianza e la vera libertà.
Un forte No è il punto di partenza per difendere anche i diritti delle donne, faticosamente conquistati da eroiche lotte, e che ora sono nuovamente minacciati.
Un forte No può essere il trampolino di lancio per il riavvio a un’occupazione giovanile degna, che sottragga le nuove generazioni dalle grinfie dissanguanti della disoccupazione.
Gli imperialisti, quando lo ritengono necessario, hanno sempre miglior gioco nell’abbattere regimi dispotici tenuti da un sol uomo, e ne ritorcono i benefici tutti a proprio favore. È più vantaggioso, per loro, che di avallare “lotte intestine”, interne ai Paesi. E una nazione che ne opprime un’altra, forgia le proprie stesse catene.
Un forte No aprirebbe la strada per l’uguaglianza e la pace tra le nazioni; i turchi, i curdi, gli arabi, tutti fratelli nella comune lotta all’imperialismo.
Sono due le forze schierate in campo, in questo referendum.
Non sono i turchi contro i curdi, non è Aleviti contro i sunniti, tra diversi stili di vita, identità, e nemmeno uno scontro tra partiti politici.
Non importa quale partito pro-capitale darà il suo consenso o meno a questo referendum.
In Turchia, in questi giorni, lo schieramento è di classe: e queste classi si danno battaglia nelle fabbriche, nei campi, nei cantieri, nelle scuole, negli ospedali, nelle comunità, per strada e ovunque.
E la maggioranza dei lavoratori sfruttati contro un’esigua minoranza di padroni sfruttatori. E l’unica opzione che rappresenta le ragioni dei lavoratori, in questo scontro frontale, è indegorabilmente il No.
L’unione delle lavoratrici e dei lavoratori è l’unica alternativa per convertire la guerra tra poveri nella guerra contro i ricchi.
Perciò invitiamo tutti i dissidenti a questo sistema, per una lotta comune tra le fila della classe operaia, contro il tentativo di consolidare il dominio di classe con un conclamato dispotismo.
E divergiamo, in questo, da tutti quelli che si approcciano al tema referendario da un punto di vista dei costumi, dell’identitarismo, del nazionalismo o del credo religioso.
Il terreno del Partito Rivoluzionario dei Lavoratori è il terreno di classe.
E si rivolge a tutte le lavoratrici e i lavoratori perché siano alleati e compagni nella lunga strada verso l’uguaglianza e la libertà.
No alla borghesia!
No al dispotismo!
No all’imperialismo!