Il regime di stato di emergenza instaurato da Tayyip Erdogan e dall'AKP inasprisce la sua persecuzione contro la classe lavoratrice e contro l’opposizione curda. Due dirigenti principali della giovane generazione del Partito Rivoluzionario dei Lavoratori (Devrimci Isçi Partisi, DIP) sono caduti vittima di questa repressione: tra i contestatori all’università che sono stati cacciati dai loro posti per decreto governativo, ci sono Levent Dölek, vicesegretario del partito e docente alla Facoltà di Economia dell’Università di Istanbul, e Mert Kükre, responsabile della sezione di Ankara del partito, assistente-ricercatore e candidato al dottorato della Middle East Technical University di Ankara, contro il quale si sono di nuovo rivolte le minacce di espulsione da parte dell’amministrazione dell’università, che approfitta strumentalmente dello stato di emergenza in vigore dall’alba dello sventato golpe del 15 luglio.
ERDOGAN VARA UN DECRETO-LEGGE CHE SOLLEVA LEVENT E COLLEGHI DAL PROPRIO INCARICO
Levent Dölek e i suoi colleghi sono stati licenziati per mezzo di un decreto-legge emesso nientemeno che dall’assemblea del Consiglio dei Ministri, sotto la vigile presidenza di Tayyip Erdogan. Si sono ritrovati accusati del reato di una presunta relazione con organizzazioni terroristiche. Ma la ragione di questo provvedimento è trasparente a chiunque conosca la situazione all’Università di Istanbul. Levent è uno dei più importanti dirigenti di un vero movimento militante che dal 2008/2009 lotta per la sicurezza lavorativa degli assistenti-ricercatori. A un certo livello dello scontro, il movimento si era proposto di occupare, durante la notte, un’aula di lettura nell’edificio della Facoltà di Scienze. E prevedeva, di lì a poco, la stessa azione per l’ufficio del rettore dell’università.
È una lotta che vince grazie alla forza di un movimento di massa organizzato. Molti altri membri dei cosiddetti “comitati dei rappresentanti”, organismi che si sono generati democraticamente in seno al movimento stesso e mediante i quali era dato ad ogni rappresentante di agire come portavoce degli assistenti-ricercatori dei vari dipartimenti universitari, sono stati ora pubblicamente licenziati.
Ma la lotta di Levent non si è tenuta confinata entro i limiti di questi episodi particolari. Tanto meno si è limitata alla specifica lotta della propria categoria professionale. Oltre alla sua indefessa militanza nel partito, Levent è stato membro quotidianamente attivo nella commissione università del Sindacato dei lavoratori dell’Istruzione, l’unico sindacato progressista di dipendenti pubblici nelle istituzioni scolastiche in tutto il Paese. Sempre partecipe ai picchetti, quando i lavoratori subappaltati dell’università continuavano a lavorare in condizione di precarietà estrema e salari da fame, battendosi per i diritti di tutti.
Al tempo stesso, si mobilitava costantemente da una parte all’altra delle aree industriali del Paese, da Bursa a Manisa e da Kocaeli a Düzce, per aiutare gli operai industriali a organizzarsi e combattere. È stato presente durante tutti i più importanti episodi della recente storia della lotta di classe turca, assumendo un ruolo importantissimo nello sciopero a oltranza dei metalmeccanici al quale aderirono decine di migliaia di operai dalle maggiori fabbriche automobilistiche e da altri settori metallurgici, nella primavera e nell’estate del 2015.
Né la sua attività militante si esauriva nella lotta di classe nel senso stretto del termine. È stato dalla parte degli studenti durante ogni recente manifestazione svoltasi sotto il regime iperrepressivo dell’università, e sempre al loro fianco mentre questi cercavano di proteggersi dai feroci attacchi delle guardie di sicurezza e dalle cariche dei celerini.
Solo qualche tempo fa è stato in prima linea con due suoi colleghi (anch’essi licenziati, ovviamente) a denunciare la violenza della polizia contro gli studenti dell’Università di Istanbul che tentavano di metter su un corteo di protesta dopo l’anniversario dell’attentato kamikaze ad Ankara (10 ottobre 2015) sferrato contro una manifestazione sindacale, in cui persero la vita più di un centinaio di persone.
Crimine organizzato dall’ISIS sotto lo sguardo benevolo del governo dell’AKP.
Tutto questo non poteva sfuggire all’attenzione né dell’amministrazione universitaria né del governo.
Il governo ha usato i suoi adesso più che mai illimitati poteri per promulgare decreti-legge per mezzo dei quali radiare dal pubblico impiego decine di migliaia di presunti adepti della confraternita di Gulen, additati come i responsabili del fallito golpe del 15 luglio.
In tempi brevissimi, questa oggi è diventata la norma da estendere a tutti i dipendenti pubblici che si sospettano affini al movimento curdo, solo per aver partecipato agli scioperi indetti dai sindacati del pubblico impiego ed aver protestato contro la palese violazione dei diritti umani nella regione curda.
Più di recente, nomi di militanti di sinistra o di semplici attivisti sociali hanno iniziato a intrecciarsi nella fitta rete dei migliaia di nomi degli epigoni di Gulen. Levent e i suoi colleghi sono stati oggetto di questa ripugnante strategia che mischia, in un amalgama surreale, religiosi della confraternita conservatrice di Gulen (peraltro ex-alleati del governo!) ed atei marxisti che combattono Gulen non meno di quanto combattano i reazionari dell’AKP.
Il tutto è tanto più grottesco, in quanto il rettore dell’università e la sua cricca, i compilatori, con ogni probabilità, della lista dei comunisti da cacciare, sono ora sospetti essi stessi di “gulenismo”!
Ma si sa che non è affatto facile tappare la bocca a un marxista che lotta per la propria causa. Così, il decreto di espulsione ha fallito nel suo intento. Dopo soli tre o quattro giorni dal licenziamento, Levent e i suoi colleghi sono venuti alle luci della ribalta grazie ad interviste in tv e giornali e a milioni di visite sui loro account internet, sortendo l’effetto contrario: un immenso entusiasmo per la strenua tenacia con la quale Levent resiste al governo e all’instaurazione del suo regime fascista sotto la maschera dello stato di emergenza.
Il 3 novembre, alcuni giorni dopo l’emissione del decreto, la Gazzetta Ufficiale ha pubblicato la notizia di una immensa manifestazione indetta dal corpo studentesco e da un gran numero di organizzazioni di massa che si è tenuta nella piazza di fronte al campus universitario, in cui Levent ed una studentessa militante nelle fila del DIP sono stati due dei tre agitatori.
Levent, con il supporto dell’intero DIP, sta lottando per spiegare ai lavoratori, gran parte dei quali sostenitori di Erdogan per le ragioni che abbiamo visto altrove, come lo stato d’emergenza sia il pretesto, di giorno in giorno, per la restaurazione di una dittatura furiosa che ha tra i principali obiettivi proprio la guerra alla classe operaia.
Il governo caldeggiava già mesi prima del tentativo di golpe l’iniziativa di privatizzare le miniere di carbone dello Zonguldak. Non importa quanto fosse scandaloso questo progetto in un Paese che ha conosciuto la tragedia di Soma, nella quale 303 minatori di un’azienda di carbone privata morirono in un “incidente” sul lavoro o, come è più giusto dire, in un eccidio in nome del profitto.
Questo nemmeno due anni fa! Era infatti questa strage che i minatori dello Zonguldak ricordavano al governo il 14 luglio, cioè solo un giorno prima del fallito colpo di Stato, marciando uniti in quella manifestazione storica contro la privatizzazione.
Il decreto-legge si abbatte sul compagno Levent esattamente come sugli operai e gli ingegneri in lotta, cioè su tutta l’avanguardia di classe nelle miniere della regione.
Il terrorismo, se c'è, è la violenza di questo Stato capitalista contro il proletariato!
L’OPPORTUNISMO DELLO STATO D'EMERGENZA E LA RISPOSTA DI MERT
Il caso che riguarda Mert Kükrer, il secondo dirigente del DIP perseguitato, è in qualche modo più complesso. Rappresenta, però, in modo emblematico, un altro aspetto della vicenda. Quello che il DIP chiama “opportunismo dello stato d’emergenza”.
Anche per lui, come per Levent, le lancette della storia sembrano essere tornate indietro.
Da diversi anni Mert è il segretario organizzativo della Commissione Universitaria di Ankara del suddetto Sindacato dell’Istruzione (la ragione per la quale quest’ultimo non si chiami “sindacato dei docenti” sta semplicemente nel fatto che non è solo un sindacato categoriale, di docenti; ma si prefigge orizzontalmente di raccogliere tutti i lavoratori del settore).
Attraverso questa funzione, è stato il maggiore organizzatore di una grandiosa agitazione di lavoratori in sciopero al Middle East Technical University (METU), tenutasi nel dicembre 2014.
Uno sciopero che ha unito lavoratori di diverse categorie; insegnanti, lavoratori della ristorazione, personale amministrativo, addetti alle pulizie. Per ben tre giorni, oltre un migliaio di lavoratori si sono uniti in sciopero contro le angherie economiche che colpiscono tutti questi settori senza eccezione. È stato lo sciopero più riuscito e con la più alta adesione che all’università si ricordi dai tempi oscuri della giunta militare nel 1980.
L’amministrazione universitaria non ci ha pensato due volte a lanciare la rappresaglia. Così, nella primavera del 2015, sono stati presi durissimi provvedimenti disciplinari contro Mert e un suo collega, tecnico di laboratorio. La pena è stata l’espulsione dal pubblico ufficio. Per la precisione, per Levent la punizione ha già avuto valore esecutivo. Punizione aggravata dal fatto che alla vittima non si è consentito di svolgere nessun altro lavoro nel settore pubblico, neanche come bidello.
Perciò il compagno non può esercitare nemmeno da avvocato, poiché quest’ultimo, in Turchia, si considera esercizio pubblico. Mert e i suoi colleghi hanno deciso di passare al contrattacco con un picchetto davanti all’ufficio del rettore. Si sono accampati trascorrendo 17 giorni e 17 notti in agitazione. E le azioni di supporto da parte dei docenti universitari, personale amministrativo, operai, studenti, etc. nel corso di quei giorni, sono state tantissime.
METU è divenuto un simbolo di resistenza per tutte le università della Turchia, grazie a questi grandiosi giorni di lotta.
E a questo punto è diventato difficile per l’amministrazione – che da sempre ama presentarsi come l’erede naturale della stagione di lotte degli anni ’60 e ’70 – continuare per questa strada.
Il movimento ha toccato il suo momento più alto durante le cerimonie di laurea: gli studenti impugnavano un’infinità di cartelli con su scritto “Giù le mani dal mio insegnante!” e srotolavano striscioni giganteschi che esprimevano solidarietà a Mert e agli altri scioperanti, mentre metà del corpo studentesco voltava le spalle al discorso del rettore.
Non stupisce che l’amministrazione universitaria (e il Consiglio di Educazione Superiore, un ente sovrauniversitario reazionario creato dalla giunta militare del 1980 con competenze disciplinari) abbia dovuto fare dietrofront. Il dossier è stato silenziosamente insabbiato. Peccato che Mert sia stato ancora richiamato per sanzioni disciplinari venti giorni fa, con la stessa minaccia di licenziamento dal settore pubblico.
È esattamente a questo che diamo il nome di “opportunismo da stato di emergenza”: organismi della pubblica amministrazione, teoricamente indipendenti dal governo, che usano l’atmosfera politica - nata da una situazione eccezionale - a fini repressivi, in questioni che non sono in alcun modo legate a chi è accusato (e punito) d’esser tra gli autori del colpo di Stato.
Il ricorso strumentale, da parte del governo, ai poteri eccezionali che lo stato d’emergenza gli conferisce per aggredire il movimento curdo o il movimento operaio (dal momento che i due movimenti si trovano come obiettivo accomunati dalla stessa strategia di Erdogan di rastrellamento degli oppositori) col colpo di Stato non ha niente a che vedere.
L’amministrazione del METU ha atteso un anno e mezzo in totale stasi prima di portare la questione di Mert all’ordine del giorno semplicemente perché lo stato d'emergenza (e non attraverso metodi legali, ma in forma forma politico-psicologica) adesso è a suo favore, in un’atmosfera ancor più repressiva.
E questi rispettabili “dottori” si dichiarano contrari alle mire assolutistiche di Erdogan e alla distruzione della laicità! Quando si tratta di schiacciare il proletariato, però, tutti rinnovano la lealtà al sultano.
Mert e i compagni di Ankara hanno deciso di rafforzare le barricate con più picchetti all’ufficio del rettore universitario. E questa azione adesso vince, dopo una lunga notte di lotta. La direzione universitaria, in quella che già si profilava come una discussione accesa, si è rifiutata di approvare la richiesta dell’amministrazione di licenziare Mert. Vittoria!
Vittoria che premia indubbiamente la resistenza di Mert che per 33 lunghi giorni è rimasto accampato in una tenda dinanzi all’ufficio del presidente dell’università, come nell’estate 2015.
È stato d'aiuto anche il sostegno di molti noti accademici e intellettuali dai diversi angoli del mondo che hanno lanciato appelli e firmato petizioni, influendo in maniera determinante sull’amministrazione METU che sa d’avere, da tradizione, una reputazione da difendere agli occhi del mondo.
È stato vitale il contributo dei nostri compagni greci e italiani.
Anche Mert, come Levent, si è trovato in prima linea nelle innumerevoli lotte dei lavoratori.
Ad Ankara, ha sempre partecipato e collaborato a picchetti e occupazioni, di posto di lavoro in posto di lavoro, contro tutti gli attacchi della classe padronale.
Ricordiamo ancora la sua vigorosa attività durante i 72 giorni della “Comune di Sakarya”, come il DIP chiama la tendopoli allestita nel cuore di Ankara tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010 dagli operai della Tekel, manifattura di tabacchi e alcolici allora statale, oggi privatizzata.
Mert era in contatto costante con i diversi accampamenti delle regioni, ha coordinato l’attività dei militanti del DIP, inviati per l’occasione dalle proprie città ad Ankara per dar sostegno ai lavoratori, rafforzando la protesta, presidiando con loro; ha curato una ventina di volantini di partito da distribuire tra gli occupanti, analizzando gli sviluppi della lotta, spiegando quale fosse la linea da tenere, in linguaggio comprensibile a tutti.
Fa da sempre chiaramente parte delle politiche dello Stato turco la repressione degli intellettuali dissidenti. La borghesia sa bene che l’unità tra il pensiero marxista e la classe operaia è la più grossa minaccia che essa possa avere.
Levent e Mert pagano ciascuno le proprie conseguenze del maccartismo ottomano, così come i compagni di qualche generazione fa hanno subito la medesima persecuzione dai colonnelli dei primi anni ’80. Oggi non assistiamo che alla rivelazione fascista di una restaurazione che affonda le sue radici in quegli anni e che, pezzo per pezzo, ricostruisce un vero e proprio regime sotto le mentite spoglie di un parlamento democratico.
Ma sono stati soprattutto dei quadri e dei dirigenti, delle avanguardie del movimento curdo, le teste sulle quali, per decenni, si è abbattuta la scure della repressione, denudati e massacrati. Adesso sono le nuove generazioni di marxisti a vedersi puntare addosso i cannoni della borghesia che disintegra il proletariato rivoluzionario.
SVILUPPI SPASMODICI
Il governo è ora in guerra con chiunque. Non solo con i gulenisti, veri o presunti, ma con qualsiasi opposizione possibile.
Il giornale Cumhuriyet, che si potrebbe descrivere come l'equivalente di un Le Monde, Guardian o Corriere della Sera, è interamente sabotato e i suoi giornalisti vengono arrestati. Si contano ben 130 redazioni chiuse. E lo scenario si incupisce di giorno in giorno. Senza dimenticare la guerra contro il Medio Oriente e la posta in gioco che si alza sia in Siria che in Iraq.
Dopo il colpo di Stato, Erdogan si è ritrovato isolato a livello internazionale, privato dell’appoggio di tutti gli organi repressivi dello stesso Stato turco. Ma ancora una volta, come già nel 2013 quando la leadrship di Erdogan ebbe uno scossone da parte dei sommovimenti delle rivolte popolari di Gezi Park e dagli scandali di corruzione, o nel 2015 quando avrebbe perso le elezioni di giugno di fronte a tutte le accuse di corruzione, i suoi ex nemici nelle file della borghesia gli sono corsi in aiuto.
Il cosiddetto "consenso nazionale" dei partiti, messo su proprio per difendere la democrazia da qualche tentativo di golpe (!) ha cementato l’unione dell’AKP non solo con il fascista MHP, ma persino con il partito di Ataturk, il CHP, il quale gli ha restituito nuova linfa vitale. Tre mesi dopo, una volta consolidato il potere e smesso di traballare, sulla scia delle misure securitarie scaturite dal colpo di Stato, Erdogan si appresta a liquidare la vecchia alleanza con il CHP, rimpiazzandolo con il fascista MHP in funzione nazionalista e anticurda. Così la sua stella splende di nuovo. E questa nuova alleanza può guadagnargli la tanto agognata riforma presidenzale, che nei fatti ha sempre esercitato da quando, nel 2014, si arrogò la carica istituzionale.
Il così chiamato rabiismo di Erdogan e dei suoi neofascisti, progetto sunnita panturco di dominio sul mondo arabo (e oltre), ha la strada spianata, e apre spazi per il rais in Medio Oriente. Ma gli ostacoli non mancano. Erdogan, in Siria e in Iraq, sta giocando col fuoco. Lo Stato parassita saudita getta benzina su una possibile guerra con l’Iran che si tradurrebbe in una fratricidio islamico tra sunniti e sciiti. Per quanto riguarda la politica nazionale, invece, ragioni e mandanti del colpo di Stato sono sospesi in un alone di mistero. Ci sono fonti che dicono che il colpo di Stato potrebbe esser stato sostenuto da Erdogan stesso, ma che quest’ultimo, poi, si sia tirato indietro all’ultimo momento. E ciò dimostrerebbe che non passa gran differenza da come Erdogan gestisce le questioni nazionali e quelle internazionali. Tra i motivi principali del sostegno di rilevanti settori della classe operaia ad Erdogan c’è la costante crescita dell’economia, fino agli ultimi tempi. Ma adesso incombe lo spettro della recessione all’orizzonte. I recenti licenziamenti potrebbero rianimare la rabbia popolare latente a fronte di questa politica di distruzione sistematica delle conquiste e dei diritti dei lavoratori, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro già minacciata per decenni, dalla giunta militare fino al governo dell’AKP.
Ci aspettano delle battaglie determinanti per il futuro. Bisogna tenersi pronti a fronte a una rapida evoluzione delle circostanze.
Ne "La III Internazionale dopo Lenin", Trotsky ha parlato di queste fasi di transizione politica su scala mondiale, e della rapida successione da una fase all’altra. Secondo lui, questo “sviluppo spasmodico” è la regola, e non l’eccezione:
«La peculiarità esplosiva di questa nuova epoca, con le sue variazioni brusche di flussi e riflussi politici, con la sua lotta di classe altalenante tra fascismo e comunismo, è data dal fatto che il sistema capitalista internazionale si è già condannato a morte e non è più in grado di garantire progressi nel suo sviluppo. (…)
Il carattere rivoluzionario della nostra epoca non sta in ciò che permette il compimento della rivoluzione, che è la presa del potere da parte del proletariato quale che sia il momento in cui avviene; bensì consiste in profonde e nitide fluttuazioni e brusche e frequenti transizioni da una situazione immediatamente rivoluzionaria (quando il partito comunista si trova nelle condizioni di tentare la presa del potere) alla vittoria della controrivoluzione fascista o semifascista, e da quest’ultima verso l’instaurazione di un regime moderato provvisorio (il “blocco di sinstra”, l’inclusione della socialdemocrazia all’interno della coalizione, la consegna della staffetta del potere al partito di MacDonald, e così via), per subito dopo spingere gli antagonismi a scontrarsi ancora e ravvivare così la questione del potere ulteriormente.»
La Turchia, oggi, sta concretamente sperimentando questa “fase spasmodica” di sviluppo.
La rivolta di Gezi Park e lo scandalo della corruzione a ridosso del 2013 sono stati seguiti dalla vittoria elettorale dell’AKP nelle elezioni locali di marzo e in quelle presidenziali dell’agosto 2014. Ma la serhildan (“rivolta”, in lingua curda) a Kobanê nell’ottobre dello stesso anno ha cambiato la situazione ancora una volta. A questa è seguita lo sciopero ad oltranza dei metalmeccanici e la sconfitta alle urne di Erdogan nel giugno 2015. Tuttavia, a causa degli errori politici commessi dal movimento curdo e dalla stessa sinistra, la situazione è cambiata e sono state indette le elezioni anticipate di novembre, in cui l’AKP ha riconquistato l’egemonia.
Il colpo di Stato fallito di luglio si può dire sia stato un “incidente” che però ha portato Erdogan sull’orlo del precipizio. E adesso, come l’araba fenice, il presidente e il suo partito risorgono dalle proprie ceneri, ancora!
Alla luce di questo alterarsi di alti e bassi, come sulle montagne russe, il DIP si sta preparando ad ogni tipo di lotta, dalla resistenza alla repressione al contrattacco, laddove si aprano spazi per l’ascesa della lotta di classe. Siamo politicamente e psicologicamente pronti a rispondere a ulteriori pressioni. Non ci rassegniamo alla disperazione come fa tanta sinistra che continua a gemere e a lamentarsi, ma ci prepariamo a reagire!
Contrattacchiamo non solo negli ambienti condizionati dal sentimento piccolo-borghese laico in cui tutti, a parole, si dichiarano avversari di Erdogan. Ci assumiamo un compito ben più arduo: fare del nostro meglio per distruggere le infatuazioni residue nella classe operaia verso il tradizionalismo e l'identitarismo nazionalista di cui il Sultano si fa paladino contro l’avanzata dei poteri forti della globalizzazione, solo oggi dopo decenni.
Mentre Erdogan e la sua cricca si rifanno a califfi e sultani, i comunisti rivendicano la tradizione della lotta di classe, della ribellione che si accendeva in Anatolia e in Tracia sotto l’Impero ottomano, e dell’affermazione di un’identità non nazionale, ma di classe!
Mentre gli ideologi dell’AKP straparlano, come i pupazzi manovrati dal ventriloquo, criticando USA e UE, noi che chiamiamo le cose col loro nome gridiamo forte e chiaro: “Fuori la Turchia dalla NATO!”. Chiediamo che la base di Incirlik sia chiusa, che agli Stati Uniti si requisiscano le testate nucleari ivi confinate e che si smantelli il cosiddetto “scudo antimissile” costruito nella Turchia orientale contro l’Iran.
Ma soprattutto, combatteremo per mostrare agli operai che il governo dell’AKP aggredisce il proletariato per fare gli interessi della sola borghesia.
A dispetto delle modeste dimensioni, il DIP si sta preparando con coscienza e sistematicità per affrontare le epocali lotte che lo attendono. Ha costruito un’organizzazione che è capace di flessibilità tattica in ogni circostanza. E la giovane generazione dei suoi dirigenti ne impugna già le redini; Levent e Mert non sono che la punta dell’iceberg.
Sungur Savran (DIP)