Lo sgombero di Gezi Park da parte della polizia, la notte del 15 giugno, con l'ampio uso di gas lacrimogeni e per la prima volta dei cannoni ad acqua arricchita con liquido urticante, non ha spento il fuoco della ribellione in Turchia.
È vero, la rivolta che seguì l'espulsione e che ha portato a manifestazioni per tutta la notte e l'occupazione delle piazze in diversi quartieri di Istanbul e città di tutto il paese, fu di breve durata. Ma dall'energia continua delle masse nascono nuove forme di azione come gli “standing man”e “standing woman”, in cui alcune persone stanno in piedi in silenzio per ore, in luoghi dove non sono consentite manifestazioni. Questa forma di azione certamente isola gli individui gli uni dagli altri, non è paragonabile alla chiarezza delle masse manifestanti, e, quindi, è una modalità inferiore di protesta. Ma in questo contesto specifico, dove era quasi impossibile organizzare azioni in piazza Taksim, hanno annunciato il ritorno delle masse nel luogo più conteso e hanno sollevato il morale del movimento, dopo la battuta d'arresto causata dall'evacuazione (seguita, tra parentesi, dallo sgombero delle piazze occupate in altre città).
Molto più significativa però è stata la convocazione di ciò che è stato variamente chiamato “forum” o “assemblee popolari” tutte le notti nei parchi in tutta Istanbul. Questa è una diretta applicazione dello slogan - “Taksim è ovunque, dappertutto resistenza!” - Una parola d'ordine centrale della ribellione fin dalla sua nascita, ora messa in pratica!
In questi forum sis svolgono dibattiti con modalità democratiche, che durano fino alle ore piccole del mattino, dibattiti attraverso i quali il movimento di massa sta cercando di riorientarsi e impostare un corso di azione per il futuro.
Che queste assemblee notturne abbiano dato alla ribellione una nuova prospettiva di vita è stato confermato nella notte di lunedì 24 giugno, quando decine di migliaia di persone si sono riversate in un parco di un quartiere centrale di Istanbul, protestando contro il rilascio di un agente di polizia identificato in un video ampiamente diffuso, come responsabile dell'uccisione a sangue freddo di un manifestante ad Ankara. E le assemblee o forum si stanno ora diffondendo ad altre città, tra cui Ankara, la capitale, e Izmir, terza città più grande della Turchia, che si trova di fronte alla Grecia sul Mar Egeo.
Così la rivolta può aver subito una battuta d'arresto, ma è ancora viva e vegeta. Come può avanzare e quale sarà la sua destinazione finale, sono domande ancora aperte e soggette alle mosse delle diverse forze all'interno del movimento. Ma una cosa è certa: più a lungo dura questo movimento, più il governo dell'AKP di Tayyip Erdogan è minacciato; un governo che sembrava incrollabile solo un mese fa, anche a molta gente di sinistra.
La base del potere dell'AKP
Tale valutazione è stata, ovviamente, erronea. E' vero che da un punto di vista strettamente elettoralista, l'AKP è stato fino a poco tempo ancora prevalente rispetto a qualsiasi altra forza contendente. Ma l'accumulo di battute d'arresto su diversi fronti aveva già iniziato a minare la base di potere del governo. Per capire quello che stava accadendo all'AKP anche prima dello scoppio della rivolta il 31 maggio, prima di tutto è utile guardare più da vicino i fattori che hanno determinato la forza dell'AKP nel decennio precedente in cui era al potere.
Senza cercare di essere esaustivi, si può tentare di individuare alcuni fattori significativi. Prima di questo, però, si dovrebbe parlare di un altro fattore, di natura più strutturale e più difficilmente modificabile nel breve periodo. Ci riferiamo alla natura eccezionale della Turchia nel mondo islamico. Sotto Mustafa Kemal Ataturk, il fondatore della repubblica, la Turchia ha adottato interamente le norme e le forme legali, educative e culturali occidentali. Nessun altro paese nel mondo islamico si è spinto così lontano nell'integrazione col mondo occidentale. Ciò ha portato ad un regime in cui l'Islam è stato tenuto sotto stretto controllo dallo stato, e le classi dirigenti del paese, trascinando la piccola borghesia urbana nella loro scia, si sono occidentalizzate senza limiti. Il risultato è stato che un sistema di oppressione di classe e di sfruttamento è apparso alle masse lavoratrici anche come un sistema di divorzio culturale tra ricchi e poveri. E' in questo contesto che è emersa una nuova frazione islamista della borghesia. Prima docilmente, sotto forma di un insieme subalterno di capitalisti di medie dimensioni, prevalentemente al di fuori dei grandi centri economici del paese. Ma dal 1980 in poi, essi stessi sono diventati una componente del capitale finanziario, o in altre parole il capitale monopolista della Turchia.
L'AKP è l'ultima espressione politica di questa ala della borghesia. Abusando dell'identificazione ingannevole tra oppressione di classe e divario culturale tra le classi dirigenti e le masse, la leadership politica della borghesia islamista, con la sua cultura orientale e l'approccio conservatore, ha un vantaggio contro i rappresentanti dell'ala occidentale-laico. Erdogan, egli stesso un capitalista che si è fatto da se con radici plebee, alla moltitudine dei poveri urbani e delle campagne sembra “uno di loro”. Questo divario strutturale nella società turca è stato interamente usato e abusato da Erdogan durante il suo decennio al potere. Egli ha mantenuto in vita una politica di polarizzazione sociale tra ciò che egli chiama “l'oligarchia” (insieme con la cosiddetta “Lobby del tasso di interesse”), da un lato, e la gente autenticamente turca e musulmana del paese, dall'altro. Questo è un problema che è difficile da affrontare nel breve periodo e può essere superato solo se la sinistra - in gran parte un ramo della secolare tradizione kemalista dei movimenti progressisti borghesi – riesce a sanare il divario culturale con le classi lavoratrici.
Ci sono, tuttavia, altre spiegazioni del motivo per cui l'AKP ha tenuto per così tanto tempo, rispetto ai fragili governi di coalizione degli anni 1990. Uno è di natura puramente tecnica. La soglia elettorale del 10 per cento, per cui nessun partito che riceve meno di ciò, può ottenere un seggio in parlamento, ha fatto il gioco del AKP. Nel corso degli anni, l'elettorato dei piccoli partiti di destra ha scelto di votare per l'AKP, portando il bottino dei suoi voti fino a più del 50 per cento nelle ultime elezioni nel 2011.
Un altro motivo è economico. La Turchia ha raggiunto un notevole sviluppo economico sotto l'AKP. Con l'eccezione di un breve periodo in seguito al fallimento di Lehman Brothers, quando la Turchia ha subito una contrazione del PIL nell'ordine di circa il 5%, l'economia è cresciuta rapidamente negli ultimi dieci anni, arrivando quasi ad un 10 per cento di crescita nel 2010 e nel 2011. In un certo senso questa rapida ripresa è stata pura fortuna. La Turchia aveva già subito una immensa crisi finanziaria ed economica nel 2001 e nel 2002, proprio prima che l'AKP salisse al potere.
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L’economia turca, ed in particolare il sistema bancario, sono stati snelliti e disciplinati in risposta a quella crisi, così l’AKP ha assunto il comando di un’economia che già era stata modernizzata per soddisfare i requisiti della cosiddetta globalizzazione.
Ha poi cavalcato la cresta di una impressionante espansione dell’economia mondiale fino al 2007. E poiché in un certo senso la Turchia aveva già vissuto la sua crisi bancaria nel 2001, il sistema finanziario ha dimostrato di essere estremamente resistente nel 2008-2009 e la recessione turca ha avuto vita breve.
Benchè il successo economico sia stato soprattutto l’eredità di un periodo precedente, bisogna riconoscere che, in quanto partito dei capitalisti, l’AKP ha raggiunto quanto i precedenti governi di coalizione non erano stati in grado di fare prima di esso. Poiché l’elevato tasso di crescita si è basato anche sullo sfruttamento estremo della classe lavoratrice e contadina. Sulla base del suo forte appoggio, l’AKP ha attaccato le conquiste stabilite della classe lavoratrice in tutti i settori ed ha seguito una politica di impoverimento dei piccoli agricoltori. E’ riuscito a far ciò grazie ad una combinazione di tattiche divide et impera, guadagnando attivamente il controllo su una parte del movimento sindacale, attaccando altri sindacati ferocemente.
Un terzo fattore del successo di Erdogan è stato la sua politica estera. Ha percorso una linea sottile tra la lealtà agli obblighi tradizionali delle classi dominanti turche,l’alleanza occidentale, ed il mondo islamico ed i regimi e movimenti islamisti. Quest’ultima politica gli ha fatto guadagnare un importante prestigio con quello che i commentatori occidentali chiamano “la via araba”.
Un altro fattore significativo è stato l’alleanza che Erdogan ha stipulato con la confraternita dell’ambizioso Imam Fethullah Gulen, che presiede un potente impero di scuole missionarie in tutto il mondo, ed un’altrettanto potente rete sociale, economica e culturale nella stessa Turchia.
Un ultimo fattore è la relativa calma che Erdogan ha raggiunto su fronte curdo. Questo è dovuto principalmente al fatto che Öcalan, il leader della guerriglia curda, è stato catturato dalla Cia e riconsegnato allo stato turco nel 1999. Così Erdogan ha avuto fortuna anche in quell’area.
La virata della marea
Tutti questi fattori di forza avevano già iniziato ad indebolirsi prima dell’eruzione della rivolta alla fine di maggio. Per prima cosa la crescita economica era già scesa al 2% lo scorso anno. Le vulnerabilità dell’economia turca ora si iniziano a sentire, specialmente il problema strutturale dell’attuale deficit e l’altissimo e crescente indebitamento del settore privato nella valuta estera. La recente dichiarazione di Bernanke, presidente della Federal Reserve, riguardo la tempistica di una graduale eliminazione del Quantitative Easing, ha portato, oltre alla perdita di fiducia negli ambienti capitalistici a causa della rivolta, alla grave volatilità dei mercati finanziari turchi. La Turchia è ora di nuovo un anello debole nell’economia mondiale.
La politica estera del governo ha ricevuto colpi successivi. La politica del “problema zero con i vicini” intrapresa dal ministro degli esteri Ahmet Davutoglu è nel caos. La Turchia sta seguendo una politica di ostilità con almeno tre dei suoi vicini occidentali e meridionali; per cominciare la Siria, ma anche Iran ed Iraq. Nel caso della Siria, la facile aspettativa del governo Erdogan di una rapida caduta del regime di Assad si è rivelata sbagliata, con serie conseguenze per la Turchia. Il recente assassinio di almeno 52 persone a Reyhanli, un paese vicino al confine siriano, causato dall’esplosione di un paio di bombe, ed il fatto che, durante la sua visita a Washington a metà maggio, lo zelo di Erdogan nel trattare militarmente con la Siria sia stato smorzato da Obama, hanno causato una significativa perdita di prestigio da parte del governo.
Anche le controversie con Fethullah Gulen sono aumentate dal 2010, quando l'Imam ha ripudiato la flottiglia guidata dalla Mavi Marmara, schierandosi con Israele e sconvolgendo molte fila di islamisti. Altre questioni hanno messo su rotte distinte le due potenti figure. Nonostante il suo islamismo, Gulen si è distinto per uno stile politico estremamente pragmatico e flessibile, e potrebbe, nelle svariate occasioni elettorali del 2014, allearsi con forze politiche più laiche.
Le uniche fonti di forza che rimangono ad Erdogan sono la sua popolarità negli strati più conservatori della popolazione – un beneficio quasi strutturale – e la sua politica curda di una soluzione pacifica. Benchè quella politica sia avvolta in un mistero tale da far venire il sospetto possa crollare da un momento all’altro, per ora almeno è questa politica che gli ha dato respiro durante la ribellione, visto che il movimento curdo si è tenuto in disparte per paura di turbare il fragile “processo di pace”.
Il destino di Erdogan in gioco
Questo sotterraneo spostamento del terreno sotto i piedi di Erdogan ha in parte reso possibile la recente rivolta, che ha poi inferto un duro colpo al suo potere. Egli è ora ai ferri corti con i suoi protettori imperialisti; ha visto la ripresa del conflitto con l’ala filo occidentale della borghesia turca; ed ha persino incontrato spaccature nel suo partito di governo.
Abdullah Gul, l’attuale presidente della repubblica, è ora un serio avversario per le prossime elezioni presidenziali, palesemente sostenuto dal CHP, il membro turco della erroneamente chiamata Internazionale Socialista. Se, come è probabile, la confraternita Gulen si schiererà dalla parte di Gul, Erdogan dovrà affrontare la prima seria sfida elettorale da quando è salito al potere.
Comunque, non sta semplicemente affrontando un indebolimento elettorale. Se la rivolta dovesse prolungarsi, e forse divampare di nuovo, per Erdogan sarà difficile persino rimanere al potere prima delle elezioni. Dietro la facciata dell’irremovibile ed imperturbabile forte uomo della Turchia, si avverte l’erosione del potere e del prestigio come risultato di una possente lotta delle masse. Non è che l’AKP sia condannato a cadere. La sorte di Erdogan, così come la nostra, dipende dal futuro del movimento e la nostra abilità e capacità nello spingerlo oltre. Non c’è spazio per la benchè minima disperazione.
Il DIP prosegue nella sua lotta
Il DIP, sezione turca del Coordinamento per la Rifondazione della Quarta Internazionale, ha convogliato le sue forze nella costruzione di quello che noi chiamiamo il “Movimento dei Parchi”. Ad Istanbul, e in ogni città in cui questa forma di azione si sta diffondendo, noi partecipiamo a forum che si tengono ogni notte nei parchi in diverse parti della città. Ed interveniamo con la proposta di tre obiettivi interconnessi. Uno è definire una nuova serie di richieste immediate per il movimento di massa, che è rimasto senza un orientamento generale da quando la prima leadership, chiamata la Piattaforma di Solidarietà di Taksim, ha rinnegato le sue richieste originarie a favore della dispersione del movimento ed in attesa delle volontà governo Erdogan di fare un referendum su Gezi Park. Questa mite leadership è davvero capitolata di fronte al governo, per paura che la ribellione diventasse incontrollabile. Ed è stata sostenuta, in ciò, da una grande varietà di movimenti di sinistra, spaziando dal cosiddetto Partito Comunista della Turchia, a quei partiti che sono divenuti un’appendice del movimento curdo. A questo punto il movimento di massa è totalmente confuso ed ascolta proposte da indipendenti per rivendicazioni stravaganti che vanno dalla creazione di cucine vegane all’organizzare forme di commercio socialmente responsabili per opporsi alla propagazione delle grandi catene di vendita. Il DIP è chiaro nella sua lista di rivendicazioni immediate: abbandonare tutti i piani riguardo a Taksim, non solo quelli su Gezi Park, ma anche quelli che mirano a chiudere la piazza alle future manifestazioni di massa; far processare e punire tutti coloro che sono politicamente e praticamente responsabili per la brutalità poliziesca e gli omicidi avvenuti di recente; liberare tutti coloro che sono stati imprigionati durante la ribellione.
L’altro aspetto riguarda il metodo da adottare per avanzare nella promozione delle rivendicazioni del movimento. I forum o le assemblee popolari sono minacciati dalla prospettiva di degenerare in chiacchiere da negozio dopo un po’. Così il DIP propone che essi diventino la base per l’organizzazione di una nuova leadership per il movimento. Siamo per l’elezione di rappresentanti di ogni assemblea che si riuniscano a livello cittadino. Ciò porterebbe alla convocazione di un organismo di rappresentanza a livello nazionale, che spingerebbe non solo all’accettazione delle rivendicazioni da parte del governo, ma agirebbe anche come la leadership di una nuova fase del movimento nel decidere che azioni intraprendere.
Segnaliamo la contraddizione che ha afflitto il movimento durante il primo periodo, dall’eruzione della rivolta il 31 maggio, all’evacuazione di Gezi Park (e di conseguenza di altri parchi in altre città) il 15 giugno. Ciò deriva dal fatto che la cosiddetta leadership del movimento era composta da figure e rappresentanti che erano un cimelio del periodo precedente alla rivolta e quindi non erano in grado di rappresentare l’ebollizione e l’effervescenza create dalla rivolta stessa. Perciò diciamo “eleggere una leadership che rappresenti lo spirito della rivolta!”.
Infine, il terzo aspetto del nostro intervento nel movimento di massa, il più importante e la nostra linea strategica fin dai primi inizi del movimento, mira a infondere in esso la consapevolezza di come sia strategicamente importante una svolta del movimento verso la classe lavoratrice dell’industria, che non è ancora approdata al movimento in maniera organizzata, con richieste e forme di lotta ad essa peculiari.
Queste sono le istanze immediate che hanno lo scopo di servire alla ripresa del movimento dopo la battuta d’arresto del 15 giugno. In ogni occasione nella quale il movimento acquista fiducia in se stesso, come le manifestazioni di protesta per il rilascio dell’ agente di polizia che ha ucciso un manifestante, noi chiediamo le dimissioni del governo. E non tralasciamo mai il riferimento al nostro obiettivo a lungo termine, di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici.
Il DIP ha pubblicato un’edizione speciale del suo giornale e sta organizzando un’assemblea ad Istanbul, con possibili riunioni successive in altre città, per chi tra i ribelli vuole dare il meglio per contribuire alla rinascita della rivolta ed impostarla su un percorso di alleanza con la classe lavoratrice.
Il compito è arduo, ma vale la pena e significherebbe un trionfo reale per i rivoluzionari proletari. Questo è un percorso che potrebbe portare alla rivoluzione permanente, in Turchia e non solo.